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Anche quest’anno un nostro compagno ha
partecipato al concorso “Cercoparole” e il suo racconto è stato segnalato
tra i migliori, per cui, venerdì 5 maggio, al Salone del libro di Torino, ha
ricevuto una targa al merito. Si tratta di Daniele Albertin. Frequenta il
terzo anno del serale Sirio ed ha... 42 anni. IL LAGO - Sul lago una luna tenue accarezzava le onde, un alone di luce lentamente s’invigoriva sul manto ondeggiante dell’acqua. Udivo il leggero schiaffeggiare dell’acqua contro la barca, unico rumore, compagno discreto e costante. La sera calava, i colori del cielo lentamente s’incupivano riflessi sull’immobile velo di madreperla che colorava il lago. Le montagne che circondavano l’enorme specchio d’acqua, divennero maestose sagome nere, mentre il sole, che era già volato verso i mari tropicali, aveva trascinato con sé la coperta azzurra del cielo. L’enorme strato di madreperla si era trasformato in una lastra d’inchiostro, la vita sembrava essersi spenta, ed anche il lago si era addormentato, e così feci anch’io. Il giorno seguente, infastidito dal sole, fui costretto a svegliarmi. I cupi colori della notte si erano sbiaditi e il sole, dopo esser scomparso nella notte a ponente e aver senza sosta percorso il mondo, riappariva più luminoso che mai laggiù, a levante, spingendo con la sua corsa la luna nel più profondo azzurro del cielo. A fatica con lo sguardo, cercai un paese all’orizzonte. Guardai allora dalla parte opposta, dove la luce del giorno fioriva i tetti di un lontano abitato. Mi sedetti dando le spalle a prua, presi i remi fra le mani e cominciai pian piano a portarmi verso riva. Sapevo che a breve il calore del giorno avrebbe increspato il lago, rendendomi più difficile il percorso. I remi fendevano l’acqua, creando un suono che scandiva pigramente il tempo del mattino. Dovevo aumentare il ritmo delle remate, sapevo che il lago si sarebbe svegliato da lì a poco, e così fece. Fu dura raggiungere riva, ma quando ne sentii la vicinanza, i profumi del bosco mi accolsero delicatamente. D’un tratto, un colpo secco mi fece capire che il viaggio era finito, l’estenuante attraversata si era conclusa. Dovetti richiamare ogni energia per sollevare il mio corpo da quel guscio che mi aveva permesso di compiere tale impresa. Ed una volta giunto a terra mi lasciai cadere fra l’oblio delle onde che penetravano la terra. Non so quanto rimasi in quel posto, ma sicuramente il sole era ormai alto in cielo, i colori delle fronde erano intensamente accecanti. Mi alzai e cominciai a camminare; il lago era increspato, il vento forte faceva rumore, con raffiche decise piegava le fronde mostrandomi un cammino che seguii, in salita; aggrappandomi ad arbusti, mi aiutai a risalire quella sponda che sembrò una montagna. Giunto in cima, uscito dal bosco, vi trovai un altipiano, vidi un sentiero e lo seguii. Il sole era quello di un pomeriggio d’estate, il mio passo era quello di un soldato che si è perso, non sapevo dove stavo andando, andavo e basta, dove l’istinto mi portava, e quel giorno mi portò nella direzione sbagliata. Sentii in lontananza un violino che suonava una musica a me nota, Vivaldi, un brano che adoravo. Mi lasciai guidare da quella musica e giunsi vicino ad una casupola dove, dalla finestra aperta, scorsi una ragazza in piedi di fronte ad un leggio: rapita da quel brano, continuava a suonare il violino meravigliosamente, donando enfasi a quelle note. Mi avvicinai come ipnotizzato, e per qualche istante rimasi ad ammirarla. Guardavo quelle dita premere decise, e con agile leggerezza ad un tempo, le corde di quel piccolo strumento che creava tanta musica. Aveva una guancia appoggiata al violino, le guardai le labbra, sottili ed in un continuo movimento, come se stesse suonando anche con loro. Le piccole narici e gli occhi scuri, umidi e avvinti. Lei si accorse di me, ma continuò a suonare sorridendomi, così feci anch’io. Entrai in casa, in quella stanza dove c’era lei, ma d un tratto la musica s’interruppe, ed in quel preciso istante una lama attraversò la mia schiena, fra le costole; un dolore lancinante mi fece inarcare, i polmoni si riempirono in fretta di qualcosa che non mi permetteva di respirare, le mie gambe non riuscirono più a reggermi e caddi sulle ginocchia. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, o meglio non volli credere a quello che mi stava succedendo. Quando sentii una mano possente tirarmi i capelli e la stessa lama fredda e dura scorrere da una parte all’altra fra la carne del mio collo; chiusi gli occhi, sentendo in gola il sangue uscire copioso a flutti e riversarsi sul petto. Le urla della ragazza riempirono la stanza. Capii che le forze mi stavano abbandonando man mano che il sangue usciva: caddi riverso a terra, caddi battendo il viso sul pavimento freddo. Riaprii gli occhi. Le urla della ragazza cessarono di colpo. Udii un tonfo sordo e la vidi vicino a me, vidi quelle labbra sporche di sangue, vidi quella guancia, che poco fa era appoggiata sul violino, appoggiata ora sullo stesso pavimento dove si stava mischiando il nostro sangue. Vidi i suoi occhi ora sbarrati guardare i miei. Il terrore d’un tratto si trasformò in serenità; ci guardammo e un flusso di tenerezza attraversò le nostre pupille. Com’era buffa la vita ora che stava per concludersi! Il calore del nostro sangue si propagava lungo i nostri corpi straziati; lento arrivò alle mie labbra con il suo gusto di morte. Non seppi mai chi mi tolse la vita, né perché lo fece; ma questo, né altro, in quel mentre ebbe importanza. La mia vita stava finendo ed io ero felice: i rumori si allontanavano e mi tornarono in mente le situazioni più belle della mia infanzia. Rividi mia madre cullarmi fra le braccia, baciandomi la fronte. Rividi mio padre alzarmi in aria gioioso. E vidi la ragazza che non conoscevo, ma che suonava Vivaldi magistralmente, prendermi la mano sorridente. Non so che ne fu dei nostri poveri corpi, non so neppure il nome di quella mia compagna di sventura, non conoscerò mai la sua voce, ma so solo che da quel momento, mentre sul lago una luna tenue accarezzava le onde, mi innamorai di lei; per l’eternità.
Daniele
Albertin
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